Quarant’anni fa in Basilicata si parlava di infiltrazioni mafiose, a qualcuno dava fastidio, altri storcevano il naso, dicevano che si buttava fango su un’intera regione, eppure i morti c’erano, di quei clan si facevano i nomi e dai tribunali iniziavano ad uscire sentenze inequivocabili.

Trent’anni fa a preoccuparci erano i primi passi di una mafia lucana autoctona che si sdoganava dai compari delle regioni confinanti. Venivano trovati pizzini, organigrammi, riti di affiliazioni; a molti continuava a non piacere anche se a denti stretti si iniziava ad ammetterlo, specificando però che era una mafia da serie B.

Vent’anni fa, quando importanti inchieste giudiziarie ci svelavano intrecci tra clan e pezzi di imprenditoria e istituzioni, facendo intravedere grumi di potere occulti e trasversali, e trame di illegalità e affari sottobanco, la reazione fu ancora più indignata e come spesso è accaduto in questo nostro Paese nel mirino dello sdegno benpensante ci è entrata anche la magistratura.

Dopo mezzo secolo di racconto criminale, oggi che per coincidenza è l’anniversario della nascita di quel Carlo Levi secondo il quale “Cristo si è fermato a Eboli”, attraverso questa nuova operazione della Dda di Potenza che ci parla dei nomi e dei volti di sempre svelandoci intrecci criminali calabresi, siciliani e pugliesi, non solo ci tocca ancora una volta constatare che in realtà il fenomeno mafioso non si è mai fermato ai confini della nostra regione, ma che in fondo continua tristemente ad esistere una “Eboli” dell’analisi del fenomeno e della reazione culturale e istituzionale, che si ripercuote sia sulle preoccupanti carenze di organico degli uffici giudiziari regionali ma soprattutto sulla incapacità da parte dei cittadini di prendere atto finalmente e in modo definitivo che la nostra regione purtroppo questa mala pianta se l’è vista crescere in casa e che non riconoscendola come mafia, il proprio consenso sociale forse glie lo ha già dato.

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